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Vaderetrum del piRlota
"Un incidente a me ? Impossibile ! - di Luca "

15 settembre 2002

Non c'è niente di più stupido del credere che gli incidenti succedano solamente agli altri. Ve lo assicuro, perché anch'io, una volta, la pensavo così. Ho cambiato idea alle 17.05 di domenica 15 settembre, dopo essere finito contro una campata di cavi dell'alta tensione con uno Zephir 2000, dopo avere perso una semiala in volo, e dopo essere precipitato a testa in giù nell'Adda, uscendone miracolosamente vivo, insieme all'altro pilota. A bordo eravamo noi due: Andrea, pilota commerciale con 8.000 ore di volo sul libretto nonché istruttore ULM, e il sottoscritto, ugualmente pilota ATPL con svariate abilitazioni su mono e plurimotori. Insomma, diciamo che a nessuno dei due il volo era del tutto estraneo. Eppure... Tutto era iniziato con l'invito di Andrea e di altri amici a fare un voletto nel lodigiano, decollando dall' aviosuperficie di Dovera. Non avevo mai messo piede su un ULM, ma Andrea mi assicurò che lo Zephir, un veloce ala bassa in legno e compositi di costruzione cèca, non mi avrebbe fatto rimpiangere neppure gli strumentatissimi turboelica sui quali avevo volato in America. Quel pomeriggio il tempo era bello, come può esserlo un qualsiasi pomeriggio settembrino in Lombardia. Cielo azzurro, alta pressione, una visibilità sui 4-5 chilometri verso Est, con il sole alle spalle, ma ridotta in pratica a poche centinaia di metri verso Ovest, con il sole di fronte. "Vai tu Fabio?" "No, vai tu Luca".

Fu così che mi ritrovai seduto al posto di sinistra con le cinture allacciate. Il Rotax 912 era già caldo e ci avviammo in rullaggio al piccolo trotto, mentre il mio amico mi spiegava le caratteristiche principali dello Zephir: rotazione a 70 chilometri orari, salita a 90-100, retrazione dei flap a 200 piedi, pardon a 70 metri. .. Insomma, i soliti parametri, più o meno. Al punto attesa Andrea controllò ancora le temperature e le pressioni del motore. Dopo aver verificato che il finale fosse libero, ci allineammo in pista. Manetta tutta dentro, un'ultima occhiata alla manica a vento, freni liberi. A 5.300 giri il Rotax' "tirava" che era una bellezza, scaricando tutta la sua energia a punto fisso, grazie alla demoltiplica del riduttore. Non vi nascondo che rimasi colpito dall'accelerazione dell'apparecchio, dovuta anche alla sua massa ridotta rispetto a un aereo dell' AG delle stesse dimensioni. Abituato ai vecchi Lycoming, avevo l'impressione di disporre di una potenza più che doppia.

Una leggera pressione all'indietro sulla barra ed eccoci in volo, dopo avere percorso meno di 200 metri. "È tuo," mi disse l'istruttore passandomi i comandi. Così, dopo un paio di virate di "assaggio" coordinando barra e pedaliera, diressi il velivolo su una larga ansa ghiaiosa del fiume. Ricordo perfettamente una quota di 300 metri e l'anemometro sui 210 km/h. Volevo immortalare il mio primo volo in ultraleggero, filmando la cabina e il rigoglioso Parco dell' Adda con una piccola telecamera digitale che avevo nella tasca del giubbotto. Impugnai, quindi, la telecamera, e mentre armeggiavo per programmare al meglio la ripresa, percepii che il velivolo stava scendendo di quota. Non ebbi nemmeno il tempo di rialzare lo sguardo che udii un violentissimo schianto. "Andiamo giù," gridai. La prima regola da osservare in caso di grave emergenza è quella del fly first, ovvero "mantieni il controllo a ogni costo". Ma l'aereo sembrava impazzito, e non capivo cosa diavolo potesse essere accaduto. L'unica cosa certa era che stavamo precipitando! Negli istanti che seguirono, attimi astratti da ogni nozione temporale, pensai a una collisione con un altro aereo, o forse all'impatto con uno stormo di uccelli. In un amen lo Zephir partì in un veloce avvitamento a destra, totalmente scoordinato e fuori asse.

L'acqua scura sotto di noi era sempre più vicina. "Ci siamo," pensai. Istintivamente inspirai a fondo e trattenni il fiato. Urtammo la superficie dell'acqua rovesci, frantumando il bulbo del tettuccio. Schegge di plexiglass volavano ovunque, insieme a spruzzi d'acqua gelida, mentre una lancinante fitta mi trafisse la schiena come una pugnalata. Poi il buio. E il silenzio. Eravamo a testa in giù, sott'acqua. Non c'era tempo di pensare, bisognava agire subito. Vidi Andrea scalciare nell'acqua mentre abbandonava l'aereo. lo, invece, non riuscivo a liberarmi dalle cinture di sicurezza. Avevo le ginocchia ripiegate sul petto e il mio peso gravava interamente sugli spallacci. Il gancio, sottoposto a trazione, non si apriva. Dopo tre tentativi riuscii a svincolarmi, ma ero disorientato e la corrente del fiume mi impediva di capire dove fossero l'alto e il basso.

Mi hanno raccontato che tutto è durato solo pochi istanti. A me sono sembrati un'eternità. Emersi dall'acqua e respirai a pieni polmoni, ritornando alla vita. Reprimendo il panico, iniziai a nuotare con tutte le mie forze verso riva. La spiaggia, distante una trentina di metri, era affollata di persone, ma nessuna entrava in acqua a soccorrerci. Solo a pochi metri dalla riva, un uomo mi tese la mano, l'afferrai e mi buttai spossato su un lettino prendisole. Stavo bene, ero vivo. Il mio amico era riverso su un telo da spiaggia, accanto a me, con il volto sanguinante. La mia schiena, a questo punto iniziò a dolorare. Realizzai che avevo una vertebra fratturata. Attorno a noi si era radunata una piccola folla. Molti si giustificavano di non essere entrati in acqua a soccorrerci perché - dicevano - uno dei due cavi elettrici tranciati dall'aereo era rimasto sospeso e avrebbe potuto cadere nel fiume da un momento all'altro. Ci raccontarono, inoltre, che l'altro cavo era schizzato in mezzo alla gente come un colpo di frusta, e che quando un uomo aveva cercato di spostarlo con un grosso bastone, il legno al contatto aveva preso fuoco.

Parlavano di cavi elettrici. Quali cavi? Mentre attendavamo l'arrivo dell'auto medica e dell' ambulanza del 118, peraltro giunte sul luogo in pochissimi minuti, chiesi ad Andrea cosa fosse successo. Egli mi spiegò l'accaduto: in quel punto il fiume, largo un centinaio di metri, era attraversato da un' elettroconduttura da 130.000 Volt sospesa a una quarantina di metri sul pelo dell' acqua. I fili non erano segnalati e non erano distinguibili dall'alto, sia a causa del velo di foschia, sia perché cromaticamente mimetizzati sullo sfondo del paesaggio autunnale. Contro quegli stessi cavi invisibili, nel gennaio del 1998, si era schiantato un ULM, causando la morte di entrambi gli occupanti. Sette mesi dopo, padre e figlia di Milano urtarono i cavi elettrici con il loro apparecchio, cavandosela, fortunatamente, con qualche livido e molta paura. Ancora, il 26 aprile 1999, un altro ULM finì contro quei dannati cavi. Il velivolo si inabissò nell'Adda, ma il pilota riuscì a raggiungere a nuoto la riva. A noi è andata relativamente bene: io ho portato il busto di gesso per un mese, mentre Andrea, che si è rotto la mandibola e uno zigomo, è stato sottoposto a intervento chirurgico. Non appena possibile, entrambi torneremo a volare.

Dopo questa esperienza, però, mi domando: che cosa ci ha spinti a volare così bassi? E ancora: la catena degli eventi poteva essere interrotta prima dell'incidente? La risposta alla prima domanda è relativamente semplice: la percezione di agilità della macchina, leggera e scattante, ci ha portati a un eccesso di confidenza nel mezzo; confidenza che ci ha fatto sottovalutare il contesto ambientale, in apparenza "bucolico e amico". La seconda risposta è più complessa, ma non è disgiunta dalla prima. Il fatto di essere a bordo di un "ultraleggero" e non di un "aereo certificato", probabilmente mi ha indotto a credere di essere in una condizione psicologica di "ricreazione", e quindi di potermi liberamente distrarre, anche come pilota-passeggero.
Escludo che il mio armeggiare con la telecamera abbia distolto Andrea dalla condotta del velivolo. Il velo di foschia, però, nascondeva l'orizzonte, e a duecento all'ora per salire o scendere ci vuoI poco: basta una semplice pressione del polso sulla barra.

A spezzare la fatidica "catena" sarebbe bastato il buon senso. Ma me ne sono reso conto solamente dopo, all' ospedale. .